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L. F. Clauss

"L'ANIMA DELLA RAZZA E IL SINGOLO"

AVVERTENZA
La presente conferenza si attiene scrupolosamente ai miei libri di razziologia. Ad essi si farà riferimento usando
le seguenti abbreviazioni:
Die nordische Seele [L'anima nordica] (1a. edizione 1923, 6a edizione München 1937, J. F. Lehmanns Verlag):
NG
Rasse und Seele [Razza e anima] (1a. edizione 1925, 8a. edizione München 1937, J. F. Lehmanns Verlag): RuS
Rasse und Charakter [Razza e carattere] (1a. edizione 1936, 2a. edizione Frankfurt am Main 1937, Verlag. M.
Diesterweg): RuCh I
Rasse ist Gestalt [La razza è forma] (Schriften der Bewegung [Scritti del Movimento], edito dal reichsleiter
Bouhler, fascicolo 3, München 1937, Zentralverlag der NSDAP): RiG
Tutto ciò che entro la cornice di questa breve conferenza può essere menzionato o trattato solo superficialmente,
è stato da me sviluppato dettagliatamente nelle opere menzionate.
L. F. Clauss


1. IN CHE CONSISTE L'ANIMA DELLA RAZZA?
Ancora oggi nelle teste di tanti nostri compatrioti, anche quelli con elevato livello di educazione, regna una
confusione grande intorno al concetto di razza e, soprattutto, intorno a quello di anima della razza. Perfino molti
che in altri campi della razziologia sono veramente competenti, vanno incontro al naufragio immediato quando si
avvicinano alla scienza dell'anima razziale. Comunissima è la confusione fra anima razziale e carattere. Si provi a
domandare a qualcuno: "In che cosa consiste l'”anima della razza", e almeno sette volte su dieci si avrà la seguente
risposta: "Essa consiste in un insieme di proprietà ben determinate. L'uomo nordico, per esempio, si distingue per
essere più portato verso la vita attiva, nel suo senso dell'eroismo, nel suo essere sincero e capace di giudicare e,
infine, per essere il migliore dei condottieri".
Questa risposta non è del tutto sbagliata; essa contiene certamente una parte di verità. E’ un fatto che ci sono
molti uomini nordici che possiedono per lo meno alcune di queste proprietà e caratteristiche. Ma queste stesse
proprietà non possono essere presenti anche altrove? Il senso dell'eroismo, per esempio, forse non è stato
dimostrato, e proprio in questi tempi, dai difensori dell'Alcázar di Toledo? Nessuno vorrà negare che essi
manifestarono un notevole "senso eroico", eppure - come dimostrano le loro immagini fotografiche e le
testimonianze di quelli che li hanno conosciuti - nel loro insieme non erano certo tipi nordici, anche se in qualcuno
di loro doveva scorrere ancora qualche goccia dell'antico sangue visigotico. Inoltre, per quel che riguarda la vita
attiva e la vocazione al comando, chi vorrebbe negare che al Duce del popolo italiano manchino queste
caratteristiche? Allora Mussolini sarebbe un uomo nordico? Può anche darsi che egli abbia qualche goccia di
sangue nordico nelle sue vene, ma il suo aspetto fisico di “nordico” non ha certamente molto. Facciamo un altro
esempio: qualcuno vorrà affermare che Ibn Saud, creatore dell'attuale regno arabo e re dell'Arabia meridionale e
del Hedschas, sia un tipo prevalentemente nordico? Eppure in lui tutto è attività e dote per il comando, e anch'egli
ha uno spiccato senso dell'eroismo e una grande capacità di giudizio.
Si potrebbe continuare per molto tempo con simili riferimenti; ma fermiamoci qui. Ciò che questi esempi ci
hanno insegnato è che tutte le properietà e caratteristiche che abbiamo menzionate le troviamo anche in razze che
nordiche non sono; e quella della sincerità perfino fra stirpi "selvagge" negroidi. Ciò che attiene all'anima razziale,
quindi, non può trovarsi qui, e neppure in una qualunque altra caratteristica.
Riguardo all'uomo nordico, il nostro riferimento si riferisce sempre a quell'uomo nordico: attivo, sincero, capace di
giudicare e di comandare. Ma noi falsificheremmo l'attivismo e la capacità di giudizio, e forse anche il senso
eroico e l'idoneità per il comando, se non evidenziassimo bene il semplice fatto che si incontrano continuamente
anche uomini nordici singoli ai quali mancano proprio quelle proprietà e caratteristiche: gente pigra, vile,
menzognera, indecisa - che pure è certamente di razza nordica. Concediamo senz'altro che questi personaggi non
possono essere esempi caratteristici di nordicità, e che in loro i valori dell'umanità nordica non sono certo
rappresentati: ma nordici essi sono, e tali rimangono.
E allora? In cosa consiste l'anima della razza? Avremmo potuto più facilmente dare una risposta se non avessimo
dovuto inciampare sugli stereotipi concettuali appena menzionati, proprio mentre avremmo potuto avvicinare il
problema con la massima, o addirittura puerile semplicità. Qualcuno ha forse incontrato, per esempio, un
commerciante "tipicamente nordico" e uno "tipicamente mediterraneo", e ha avuto l'accortezza di valutare il modo
con cui ognuno di loro presenta e vende le sue mercanzie? Per il nordico sono le mercanzie stesse a parlare, egli si
ritira dietro di loro, e così risveglia nel cliente il senso di essere del tutto libero nel giudicare - sia poi questo
giudizio giusto o sbagliato. L'altro, invece, che è un tipico uomo mediterraneo, fa della procedura della vendita una
commedia piacevole in modo che il cliente goda quella commedia e poi la giudichi. Qui la merce in sé può anche
diventare un semplice accessorio. Chi ha osservato un tipo mediterraneo nell'atto di tagliare in due un'arancia
davanti al possibile cliente per poi, come se in ogni mano tenesse elegantemente un ventaglio, offrirgli con gesto
ornato le due metà facendo le lodi sperticate della sua splendida frutta, avrà anche potuto capire la differenza fra il
modo nordico e quello mediterraneo dell'arte della vendita, e in che cosa si distingue un uomo nordico, anche se è
un commerciante, da un mediterraneo che segue la stessa professione. Entrambi sono commercianti ed entrambi
fanno "lo stesso mestiere": vendono. Ambedue possono essere ugualmente competenti nella loro attività, ma
ognuno in un modo diverso; tutti e due convinceranno il loro cliente, ma si tratterà, nell'uno e nell'altro caso, anche
di un cliente diverso - di un cliente di razza diversa. La 'misura' della competenza di ognuno come venditore può
essere la stessa, ma diverso è il modo di comportarsi quando lavorano. E proprio lì sta ciò che, razzialmente, li
rende diversi.
Questo piccolo esempio ci indica la via da seguire se vogliamo cercare l''anima della razza'. La capacità
commerciale è una "caratteristica" (come la capacità di giudizio, la tendenza all'attivismo, il senso eroico, ecc.); la
si trova quasi dappertutto nel mondo, e può essere presente in uomini di qualsiasi razza. Allora non sta lì la
differenza fra le razze. Non è che una sarebbe 'dotata per il commercio' e l'altra no. In ogni razza ci sono persone
che come commercianti non valgono niente. Le proprietà o caratteristiche si riferiscono sempre e solo all'individuo
singolo: qualcuno le possiede un altro no. Le proprietà o caratteristiche sono proprie del carattere, non della razza.
La razza non determina un particolare inventario di proprietà specifiche, ma il modo in cui esse si rivelano. Quel
modo di rivelarsi noi lo chiamiamo: stile dell'espressione vitale oppure: stile dell'anima. È questo stile che
costituisce la natura di ogni animazione razziale ed ha un effetto in ognuna delle nostre esperienze vitali, siano
esse profonde, superficiali o quotidiane. L'opinione diffusa che l'anima della razza poggi su queste o quelle
caratteristiche, è tanto poco scientifica, o tanto poco intellettuale, come quella secondo cui la differenza fra nordici
e meridionali sta nel fatto che gli uni vendono arance e gli altri aringhe.

 

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"LA RAZZA E' FORMA"

MANIFESTAZONE UNICA O CONFORME ALLA RAZZA?

Fino a poco tempo fa, in quelle scienze che si occupavano della storia dello spirito umano, come
obiettivo logico della ricerca sull'uomo, inteso come creatore e inventore, valeva la persona storica:
manifestazione unica e specifica verso cui erano diretti tutti gli sguardi, con lo scopo dichiarato di
darle la massima evidenza. Questa unicità e specificità sembrava l'unica cosa storicamente
interessante, per la quale valeva la pena intraprendere ricerche sulla vita stessa di un qualsiasi
individuo.
Un simile modo di vedere le cose era forse giusto per quella data epoca. A livello scientifico esso
portò diversi risultati il cui valore resta ancora vivo; ma fuori dal campo strettamente scientfico ebbe
effetti molto diversi. Nella vita intellettuali delle classi colte apparve quella strana nebbia dal
profumo d'incenso che cominciò ad avvolgere quel fenomeno unico: la venerazione dell'"individuo" e
l'attenzione morbosa verso una vita "completamente individuale". Un fatto intellettuale che già ora ci
sembra lontano e superato, come le parrucche in stile Allonge e il rococò.
Ogni epoca che vive decisamente secondo i propri canoni diventa necessariamente ingiusta verso i
tempi trascorsi - ma soprattutto verso l'epoca che l’ha immediatamente preceduta. Noi non ci
preoccupiamo di giudicare se quei tempi ormai affossati, dentro ai quali valeva quella unicità, se visti
con gli occhi di un giudice sovratemporale debbano essere considerati creatori di valori sempre
validi; la loro dissoluzione priva di gloria l'abbiamo vissuta di persona, e la ricordiamo ancora in
modo netto. E a noi sembra che quella dissoluzione sia stata proprio la conseguenza inevitabile di
quell’atteggiamento mentale. Quel comportamento psicologico, se considerato con attenzione, indica
che conteneva già in sè l'inclinazione a morire di quella malattia. Il suo valore più alto: l'unicità del
singolo - si astraeva da tutto ciò che anche al singolo dà senso e forza, e lo strappava dalla sua radice
fondamentale: la razza. Ma ciò che è stato sradicato non può che appassire.
Di tutto questo ci si era già resi conto, ma ci si appassionava al fatto di appassire; ci si
compiaceva della propria condizione malata; si godeva della crescente unicità della vita
decadente, e si curava solo la fantasmagoria cromatica della dissoluzione. Ci si concentrava certo
sulla malattia, ma non con lo scopo di curarla, in quanto una cura avrebbe rovinato la preziosa unicità
del male.
Il valore dell'unicità del singolo era talmente indiscutible da non poter essere scosso ad alcun prezzo -
neppure in quei campi nei quali, un tempo, spiriti ben più profondi avevano capito che proprio questa
consapevolezza dell'unicità del singolo, vissuta all'estremo, porta necessariamente e sempre a quel
deserto interiore che inaridisce ogni forma di vita.
La conclusione non poteva essere che la disperazione. Ma dicendo questo non si è detto molto,
perchè ci sono molti tipi di disperazione. Nei paesi occidentali questa disperazione intellettuale si è
trasformata in un dolore cronico e sotterraneo. C'è in questo caso una disperazione che non finisce
mai; non riesce mai a superare se stessa, ma nello stesso tempo non sa trasformarsi in un qualcosa di
nuovo. Essa persevera come un qualcosa di "fin de siècle", anche nel nuovo secolo.
Può darsi che per noi tedeschi sia motivo di un certo orgoglio il fatto che proprio qui la disperazione
sia arrivata alle sue ultime conseguenze, preparando così la sua stessa fine. Sarebbe stata la fuga
nell'idea, portata alle sue ultime conseguenze dal condzionamento cronologico di ogni vita storica.
Non si vedeva più alcun popolo, alcun sangue, alcuna specie - si vedevano solo culture. Le si vedeva
crescere allo stesso modo in cui crescono le piante. Si vedeva che esse "obbligatoriamente" dovevano
attraversare certe forme, e come quelle finalmente appassissero, anche qui "obbligatoriamente",
proprio come una pianta di un anno appassisce dopo che la sua vita annuale comincia a declinare.
Perché deve essere così? Questa domanda sembrava puerile. Essa trovava sempre la sua risposta
nella magica "obbligatorietà", appure nel "di necessità". Si poteva dire tutto ciò che questo nostro
tempo di appassimento sa di poter dire: non sappiamo niente di ciò che vi è prima dell'appassire
evidente. L'espressione classica di questa convinzione fu data, ancor prima della svolta del secolo,
dal francese Paul Verlaine. Per lui la decadenza della Roma imperiale era un'allegoria dei suoi stessi
tempi:
Io sono l'Impero, obiettivo della decadenza,
che, con occhio triste, guarda le schiere dei popoli biondi,
e che, con mano stretta, costruisce versi ornati,
sul quale il sole danza, con stile stanco e dorato.
Verlaine aveva un'esperienza alla francese delle cose. Ma quel grande poema filosofico che è il
"Tramonto dell'Occidente" di Oswald. Spengler, è venuto una generazione più tardi ed è stato scritto
in tedesco. E questo fa una differenza, sia nella forma che nell'atteggiamento. Il contenuto vivente di
entrambi è quasi lo stesso; ma se la disperazione del francese si riversa su se stessa con linguaggio
roboante, e il tutto si esaurisce lì, la disperazione tedesca prosegue senza cedimenti per la sua via,
fino in fondo, e apre a un nuovo inizio.
Mentre tutte queste cose procedono per la loro strada, nuove forze spirituali sono già pronte ad
entrare in azione. A queste forze si potrebbe dare, forse, il nome generico di "ricerca della vita"; ma
in un significato molto più ampio della vecchia parola "biologìa". Fu certamente la biologìa, vista
come scienza naturale, che diede spazio all'osservazone dell'uomo singolo. Ma ora il singolo non è
più visto come manifestazione unica; né la sua perticolarità viene più sopravvalutata. Oggi i singoli ci
stanno davanti come un qualcosa di completamente diverso, cioè come enti in cui una vita
superiore e senza tempo manifesta se stessa: la vita della razza.
Questo rovesciamento del modo di trattare le cose, significa molto più che un semplice
cambiamento scientifico. Esso è un cambiamento fondamentale nella stessa valutazione della vita
singola. Qui il valore di fondo non è più la singolarità della vita di un dato essere umano, ma la sua
congruenza o meno con la razza; cioé proprio con ciò per cui egli è qualcosa in più di una
manifestazione singola. In lui non è importante nè l'apparenza momentanea, nè ciò che lo determina
in modo unico: quindi, la sua "legge individuale", ma solo ciò che è valido in modo sovratemporale;
ancora una volta: la legge della razza.
Lo sguardo che possiamo dare attraverso la finestra che la biologìa scientifica ha aperto per noi, è
certamente liberatore. Il singolo esce dalla prigione ammuffita della sua unicità. Liberato
dall'ambizione di essere nient’altro che un semplice se stesso, è sollevato verso una vita che lo
trascende, nella consapevolezza di appartenere a qualcosa in cui ogni singolo è solo una molto
particolare manifestazione. Tutto questo impone un obbligo verso quella vita che è fuori dal tempo ed
è superiore all'individuazione, e dalla quale ogni vita singola riceve il suo reale valore, ma che non è
per questo un irraggiungibile 'qualcosa' di sovrannaturale o mistico, ma ben legato alla terra e
completamente percepibile come vita della specie.
Chi ha compreso l'ampiezza di questa visione, sa anche che la sua azione si sviluppa ben al di là
delle limitazioni imposte dalla scienza. E’ un modo del tutto nuovo di concepire il mondo; un nuovo
metro di misura per valutare sia il mondo che se stessi.
Se vogliamo dare ancora un contenuto chiaro ad una espressione spesso usata a sproposito come "il
senso della vita" - nel senso cioè di proporre che la vita abbia per davvero un 'senso' che serva ad
accompagnare ogni emozione, e contemporaneamente a manifestare la sua impersonanalità - allora
quel 'senso della vita' è qualcosa che deve scaturire dalla consapevolezza che in ognuno di noi passa
la corrente della razza: dal più remoto passato al più lontano futuro. Davanti al rimprovero che
sempre di singoli comunque si tratta quando vediamo noi stessi come discendenti e nipoti, ora
consapevoli ma domani irrigiditi cadaveri di generazioni ormai lontane, vale la risposta che siamo
certamente nipoti, ma nello stesso tempo anche antenati!

 

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CAPIRE E NON CAPIRE


In un'osteria della Foresta Nera un giorno mi capitò di assistere ad una discussione particolarmente animata tra fratello e sorella, figlio e figlia dell'oste. Il fratello era un tipo tutto tendini, alto con le spalle larghe, ma con i fianchi stretti e le giunture flessibili. La sua fronte si ripiegava bruscamente sulle tempie per separarsi poi, con forti angolazioni, dalle superfici laterali del viso, che con lunghe linee arrivavano giù, sino alla bocca e al mento sporgente. All'indietro, a partire dalla fronte, si proiettava lo stretto contorno superiore del cranio il quale, se osservato lateralmente, si incurvava molto al di là della linea della nuca, anch'essa stretta. I suoi capelli volavano al vento chiari e leggeri, per cui la curva superiore del cranio sembrava essere ancora più acuta, e gli occhi, posti in orbite profonde, afferravano il mondo con una chiarezza e una fermezza d'acciaio.

 

   Sua sorella era molto diversa. Tutto in lei era corto, arrotondato e scuro. I suoi occhietti erano come nascosti da imbottiture e quando - come durante il litigio – l’aspetto si alterava, scomparivano quasi completamente e il viso acquistava un contorno tale che sembrava fatto di cuscini tremanti. Anche il suo modo di litigare era diverso da quello del fratello. Lui parlava poco e intanto continuava tranquillamente a lavorare. Ma questo la eccitava ancora di più spingendola a parlare sempre più concitatamente, mentre le sue stesse parole le causarono finalmente una specie di crampo a singhiozzo che non le portò certo alcun sollievo. Il fratello disse: "brontola solo a se stessa". Ma lei non riusciva a trovare uno sbocco per quella sua rabbia impotente, e finì rivolgendosi a noi, avventori occasionali, la cui estraneità probabilmente accostò a quella di suo fratello interpretandola come un qualcosa di ostile. Allora ci indirizzò una maledizione, non a qualcuno in particolare, ma alla "razza rossa" nel suo insieme.  Il "rosso" era ovviamente il colore dei capelli biondo-rossi del fratello.

 

   Ma la cosa più strana era che tutta quella disputa non si riferiva a niente di concreto. I due litigavano continuamente. Il litigio era il loro rapporto normale, e non iniziava mai come conseguenza di qualcosa di specifico, ma solo come l’espressione di un odio profondamente radicato. Chi li avesse osservati per un certo tempo si sarebbe accorto che quei due non avrebbero mai trovato una soluzione, per la semplice ragione che non si capivano l'un l'altro, nè si sarebbero MAI capiti.

 

   Ma perché questo? Perché quei due non potevano capirsi? La sorella lo comprendeva istintivamente, e lo esprimeva anche in modo chiaro quando lanciava le sue maledizioni contro la "razza rossa". Che cosa le passasse per la testa nel momento di lanciare l'imprecazione non lo sappiamo, ma una cosa era del tutto chiara: si trattava di una espressione disperata del suo odio: un odio profondo, impotente, eppure irrimediabile, contro qualcosa che le era essenzialmente estraneo, e che lei percepiva come incarnato nella figura del fratello, ma che nello stesso tempo le si poneva di fronte come entità incomprensibile.

 

   Dove dobbiamo cercare la radice di questa differenza e incompatibilità, che in quel fratello e in quella sorella si manifestavano fino al fondo del loro animo in modo tale che non potevano assolutamente capirsi? Eppure erano fratello e sorella, figli della stessa madre e dello stesso padre: non erano dunque dello…. "stesso sangue"?

 

   A questo punto ci saranno molti che la penseranno più o meno così: si tratta di un caso eccezionale, che forse potrà interessare lo psicologo ma che per noi non ha importanza. Ma io non avrei mai presentato il caso in questa sede se non fossi stato convinto che ha un'importanza generalizzata e un profondo significato.

Da quando il mio senso di osservazione si è fatto più acuto, ho riscontrato casi del genere anche troppo spesso; e non solo nella Foresta Nera, ma ovunque sul nostro territorio. Persone appartenenti allo stesso popolo o alla stessa famiglia, e qualche volta fratelli o sorelle, non riescono assolutamente a capirsi e si sentono del tutto estranei, anzi: addirittura 'razzialmente opposti. E questo capita spesso, anche quando le persone in questione non sono di stampo particolarmente diverso.

 

   È questa allora la condizione del nostro popolo? Ci sono barriere interne alla comprensione reciproca? non c'é nulla in comune che metta insieme tutti gli appartenenti ad un popolo, o per lo meno ad una stirpe o ad un casato? ci sono barriere insuperabili alla comprensione che si manifestano anche fra genti dello stesso casato e fra fratelli e sorelle e che quindi, come si suol dire, sono dello 'stesso sangue'? Dove sta quell'unità e quel legame che fa di un popolo "UN popolo"? Che cosa dobbiamo intendere per "tedesco" davanti a questa disparità e a questo contrasto fra i singoli?  Il centro di gravità delle differenze non sta, come nel nostro esempio, nelle differenze somatiche o nel colorito biondo o bruno dei capelli, perchè anche in persone dai capelli neri e di piccola statura possiamo riscontrare 'anime bionde e slanciate', cioé anime che, se così anticipatamente possiamo esprimerci, avrebbero dovuto appatenere ad una persona dalla figura slanciata e dai capelli biondi.

La fenditura può essere molto generalizzata fra anima e anima, ma anche spesso fra un'anima e il suo corpo e addirittura dentro un unica anima, che allora ne risulta lacerata - e non di rado la lacerazione non è solo unica ma multipla. Chi ha spirito di osservazione può constatare continuamente persone sposate che si vogliono bene ma che, nonostante ciò e indipendentemente da ogni loro sforzo, non riescono proprio a capirsi. Esse si sentono unite da un fortissimo desiderio, eppure non possono evitare di farsi reciprocamente del male: di farsi star male e rivolgersi frasi offensive non appena vengono psicologicamente in contatto.

Si amano e si desiderano, ma NON si capiscono.

 

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INTRODUZIONE: IL PROBLEMA DEL VALORE

Quando un qualcosa di nuovo fa il suo ingresso nella storia, ci si può aspettare che esso incontri immediatamente una forte resistenza. Quello che la ricerca psico-razziale tedesca dovette inizialmente affrontare in Germania, si dilatò poi nel mondo intero. Da ogni parte vennero mosse accuse incredibili, in massima parte così stupide e assurde da confutarsi da sole nel corso del tempo. Ma in seguito, la lotta contro di noi si fece più sottile. Il fulcro di questi attacchi rimase costantemente il 'problema del valore'. Fummo accusati di sostenere che solo la razza nordica aveva un vero valore, mentre le altre sarebbero, secondo noi, “inferiori”. Il prestar fede a questa "argomentazione" fece sì che essa agisse effettivamente contro di noi; tanto più che la parola 'nordico', il cui significato può essere facilmente distorto dagi ignoranti, poteva costituire un punto di partenza per qualsiasi confusione di comodo.

   Purtroppo anche la Chiesa Cattolica aderì a questo fronte ostile alle cognizioni della scienza razziale, rivolgendoci un attacco, pubblicato sull'"Osservatore romano" del 30 aprile 1938, che si avvaleva dei soliti strumenti polemici. E siccome anche i miei libri rientrano nell'obiettivo di quell'attacco, penso sia mio dovere rispondere, sia pure brevemente, ad accuse che mi riguardano anche direttamente.

Tutto questo servirà come adeguata introduzione al testo.

   Tre sono gli errori mediante i quali quell'attacco cerca di cagionare dissensi tra noi e il nostro vicino [italiano - n.d.t.]. P r i m o  e r r o r e: si fa credere che la scienza razziale tedesca - un po' come un professore con i suoi allievi - dia a ciascuna razza un 'voto' determinato, collocando così le razze dentro una classificazione gerarchica in cui la razza nordica avrebbe sempre il primo posto. Ne deriva automaticamente che, per es., la razza mediterranea dovrebbe rassegnarsi a rimanere nel secondo posto e magari anche più sotto.

  Quest'argomento è intrinsecamente falso. È pur vero che tanto in Germania quanto altrove sono stati pubblicati libri e libelli che affermano tutto ciò, ma la psicologia razziale, che in ultima analisi è qui l'unica in questione, ha dimostrato, immediatamente e inequivocabilmente, come per quel che riguarda il valore della razza dell'anima [rassenseelische Werte] ciascuna razza rappresenti per sé stessa il valore supremo. Ciascuna razza porta sempre in sé la propria gerarchia e scala di valori; perciò non può essere misurata con la scala di valori di un'altra razza. È contrario sia alla ragione che alla scienza il guardare la razza mediterranea con gli occhi della razza nordica e valutarla seconda la gerarchia nordica dei valori - e viceversa. Nella vita pratica, è inevitabile che questo tipo di valutazione si ripeta in continuazione. Nell'àmbito della scienza ciò significa ledere la logica più elementare. Per decidere in modo "obiettivo" sul valore di una determinata razza umana ci sarebbe bisogno di un essere umano che fosse al di sopra delle razze. Questo essere umano però non esiste, in quanto essere un essere umano è, inevitabilmente, razzialmente condizionati.  Dio conosce certamente la gerarchia delle razze, noi no!

   Còmpito della scienza è trovare quella legge che determina la forma,o figura [Gestalt], animica e somatica di ciascuna razza. Questa legge, diversa per ogni razza, racchiude in sè anche la sua peculiare gerarchia di valori. È certo possibile confrontare fra loro le diverse classificazioni dei valori: per es., quella corrispondente alla razza nordica con quella corrispondente alla razza mediterranea. Siffatti confronti risultano certamente istruttivi, giacché ogni cosa al mondo rivela nel modo più chiaro la propria essenza quando viene confrontata con una cosa diversa. Ma queste scale di valori, a loro volta, non possono essere valutate da un punto di vista sovraordinato, per il semplice motivo che questo punto di vista è per noi del tutto sconosciuto.

   L'uomo nordico deve restare nordico, l'uomo mediterraneo mediterraneo, perché solo allora ciascuno di loro è il suo vero se stesso: in ordine con se stesso e conforme a se stesso. Questo è il convincimento della psicologia razziale tedesca che io rappresento, convincimento fatto proprio dall’attuale politica razziale  tedesca.

L'Ufficio di politica razziale dell’NSDAP ha fatto stampare tavole, distribuite in tutte le scuole tedesche, sulle quali è scritto a grandi lettere: ogni razza rappresenta per se stessa il valore supremo.

   I l  s e c o n d o  e r r o r e  che l'"Osservatore romano" tende a favorire è che secondo le vedute della scienza tedesca, le razze si distinguerebbero l'una dall'altra secondo le loro diverse proprietà o caratteristiche [Eigenschaften]: la razza nordica, per es., si distinguerebbe per la sua capacità di discernimento, il suo vigore, il suo senso della responsabilità, la sua coscienziosità, il suo senso dell'eroismo; mentre le altre razze non avrebbero queste caratteristiche. Non è il caso di negare che in diversi lavori antropologici del passato, anche in quelli tedeschi, si incontrano affermazioni antipsicologiche come queste. Va però osservato che quando si tratta di navigazione occorre dar retta ai marinai, quando si tratta di scarpe ai calzolai ecc., perciò quando si tratti di leggi psicologiche vale più il criterio degli psicologi che quello degli anatomisti.

   La psicologia razziale tedesca insegna dal 1921, e con assoluta chiarezza, che l'elemento animico che agisce nella razza [das Rassenseelische] non si limita a questa o a quella proprietà. Le proprietà riguardano il singolo, che ne può possedere in modo molto vario. Il senso dell'eroismo, per es., è senza dubbio riscontrabile presso moltissimi uomini di tipo nordico, ma anche presso uomini di altre razze. Lo stesso vale per il vigore, il discernimento, ecc. L'elemento animico che agisce nella razza NON consiste nell'avere questa o quella proprietà, ma nel senso che viene dato alle stesse proprietà da individui razzialmente diversi. L'eroismo di un uomo nordico e l'eroismo di un uomo mediterraneo possono essere parimenti "grandi", ma hanno un diverso aspetto, il loro effetto si manifesta in direzioni diverse, quindi assume anche un diverso significato.

   Il procedimento puerile di mettere insieme alcune proprietà riscontrate presso individui singoli di una certa razza, per es. quella nordica, per poi affermare che il fatto razziale consiste nella giustapposizione di queste proprietà, non è molto più intelligente del voler fare la descrizione corporea della razza nordica dicendo che essa ha naso, bocca, mani e braccia. Non c'è dubbio che essa ha tutto ciò e anche altro; ma anche le altre razze hanno naso, bocca, mani e braccia. Il fatto razziale non sta dunque nell'avere le une o le altre parti anatomiche. Dalla razza sono determinate la  f o r m a  del naso e della bocca; é determinato il  m o d o  in cui naso e bocca sono tenuti e mossi.

La razza determina la f i g u r a - la foggia, la 'morfologia' - delle braccia e delle mani e il modo in cui si sviluppa il loro movimento. Nessuno può negare in buona fede che l'uomo mediterraneo si muove in modo diverso dall'uomo nordico e che in modo diverso l'uno e 'altro camminano e danzano e accompagnano i loro discorsi con gesti diversi. È forse il caso di proporre il quesito di quali movimenti o quali gesti abbiano maggior valore, se quelli nordici o quelli mediterranei? Un quesito del genere non ha senso. Ciascuno esprime la sua propria specificità e il suo determinato stile.

   I movimenti del corpo sono espressioni della mobilità animica [seelische Bewegtheit]. Ciò diventa evidente soprattutto nel gioco dei muscoli facciali e nei gesti delle mani e delle braccia con cui viene accompagnata la conversazione. Perché uno muove le mani così e non altrimenti? Perché la particolare natura della sua mobilità animica gli prescrive quel determinato tipo di movimento delle mani. Lo stile del moto animico, cioè l'andamento ritmico dell'anima, determina lo stile del moto corporeo, ovvero: l'andamento ritmico del corpo. Insieme costituiscono una unità.

   Per chiarire meglio, ecco un piccolo esempio, tratto dalla vita quotidiana. Chi è più dotato per guidare un'automobile, l'uomo nordico o l'uomo mediterraneo? Anche questa domanda è senza senso. Non è "l"'uomo nordico - e neppure "l"'uomo mediterraneo - ad essere più o meno dotato per l'una o l'altra cosa. Ci sono invece numerosi individui singoli di ambedue le razze che sono ottimi autisti. Ma quando sono ottimi autisti, allora i nordici lo sono 'alla nordica' e dal loro modo di guidare sono riconoscibili come nordici. Viceversa, un mediterraneo guiderà 'alla mediterranea', quindi sarà anch'egli riconoscibile come tale dal suo modo di guidare. I loro stili di guida si differenziano in questi termini. Il conducente mediterraneo è maestro dell'istante; egli ha sempre la padronanza totale del momento presente. Nelle curve gira impetuosamente e con grande rapidità; evita gli ostacoli e frena con effetto rapidissimo - più pazzesco e pericoloso è il viaggio, più lo sentirà come un magnifico gioco. Su tutto questo il conducente nordico non si troverà mai d'accordo: non perché come autista sia meno competente, ma perché la legge che scandisce i suoi moti animici e corporei lo vincola ad un altro stile di guida. L'uomo nordico non vive nell'attimo puntuale, ma sempre in previsione di ciò che deve venire: egli è dominatore non dell'istante, ma del lontano. Non entra impetuosamente nella curva, ma percorre un arco aperto; per lui il girare la curva è "bello" quando la si può prevedere, per poi percorrerla con il minimo sforzo. Il conducente mediterraneo ama la sorpresa; in lui dà prova di sé un maestro dell'istante. Il conducente nordico guarda sempre in avanti: mira a ciò che deve venire, sia pure in via ipotetica. In questo modo egli elabora per sé un piano di circolazione prevedendo tutte le possibili eventualità; piano che per un conducente mediterraneo sarebbe un disturbo più che un aiuto.  Per il conducente dallo stile mediterraneo la mancanza del fattore sorpresa non costituisce nessuna agevolazione.

   I l  t e r z o  e r r o r e  dell'"Osservatore romano" sta nella presunzione che il popolo tedesco debba essere identificato con la razza nordica e il popolo italiano con quella mediterranea. Anche se questo non viene detto esplicitamente. Ma la verità è che il popolo tedesco è il risultato di una commistione di diverse razze, fra le quali quella nordica è certo predominante. Ma nei Tedeschi c'è anche sangue diverso; fra l'altro,  anche sangue mediterraneo. In ugual modo anche il popolo italiano risulta da una commistione di diverse razze, fra le quali la mediterranea è forse quella predominante - almeno nella parte meridionale della penisola. Ma negli Italiani c'è anche sangue diverso; fra l'altro, anche molto sangue nordico. È falso dire che i due popoli sono separati da frontiere razziali nette; anzi, essi anche nel loro sangue hanno molto in comune. Questa affinità di sangue risale alla romanità più arcaica, e da allora si è spesso rinnovata. In entrambe le culture - quella romanica e quella germanica - agisce l'attrazione e l'avversione tra leggi animiche specifiche della razza nordica e di quella mediterranea, semplicemente con risultati diversi in ciascuna delle due. Queste culture si sono strutturate l'una in contiguità e solidarietà con l'altra. Quella romanica più vecchia; quella germanica più giovane. Quale delle due dovrebbe avere maggior valore, quella più antica o quella più recente? Secondo noi, anche questo quesito è posto in modo falso.

   Il tentativo di seminare diffidenza fra popoli amici rendendo sospetta la politica razziale tedesca, non deve più recare confusione negli animi. Tutto, nel campo della politica internazionale e nell'àmbito della politica coloniale, conferma le nozioni appurate dalla psicologia razziale tedesca, garantendone anche l'applicabilità pratica quando si debbono istaurare relazioni con uomini di altro tipo. Suo obiettivo non è quello di allontanare i popoli, ma di avvicinarli perché fra tipo e tipo ci si possa certo intendere, ma sempre su una base di conoscenze scientifiche.


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Testi del Movimento / Fascicolo 3

 

A cura del Reichsleiter Philipp Bouhler

 

 

LA RAZZA E' FORMA

 

 

di

 

Ludwig Ferdinand Clauss

 

 

Con sei immagini

riprodotte da fotografie scattate dall'autore

e quattro contorni lineari

 

 

 

 

 

1937

 

Zentralverlag der NSDAP., Franz Eher Nachf. / München

 

 

 

Non ci sono obiezioni, da parte del NSDAP, alla pubblicazione

di questo testo

 

 

Il Segretario

della Commissione di analisi per il controllo della letteratura

nazionalsocialista

 

 

La riproduzone, anche parziale è vietata

 

Printed in Germany

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Stampa: Münchner Buchgewerbehaus M. Müller & Sohn KG., München

 

 

 

 

MANIFESTAZONE UNICA O CONFORME ALLA RAZZA?

 

Fino a poco tempo fa, in quelle scienze che si occupavano della storia dello spirito umano, come obiettivo logico della ricerca sull'uomo inteso come creatore e inventore, valeva solo la persona storica: manifestazione unica e specifica verso cui erano diretti tutti gli sguardi con lo scopo dichiarato di darle la massima evidenza. Questa unicità e specificità sembrava l'unica cosa storicamente interessante, per la quale valeva la pena intraprendere ricerche sulla vita stessa di un qualsiasi individuo.

 

Un simile modo di vedere forse era giusto per quella data epoca. A livello scientifico esso portò a diversi risultati il cui valore resta ancora vivo; ma fuori dal campo strettamente scientfico ebbe effetti molto diversi. Nella vita intellettuali delle classi colte apparve quella strana nebbia dal profumo d'incenso che iniziò ad avvolgere quel fenomeno unico: la venerazione dell'"individuo", e  l'attenzione morbosa verso una vita "completamente individuale". Un fatto intellettuale che già ora ci sembra lontano e superato, come le parrucche in stile “allonge” e il rococò.

 

Ogni epoca che vive decisamente secondo i propri canoni diventa necessariamente ingiusta verso i tempi trascorsi, ma soprattutto verso l'epoca che l’ha immediatamente preceduta. Noi non ci preoccupiamo qui di giudicare se quei tempi ormai affossati, dentro ai quali valeva quella unicità, se visti con gli occhi di un giudice sovratemporale debbano essere considerati creatori di valori sempre validi; la loro dissoluzione priva di gloria l'abbiamo vissuta tutti personalmente, e la ricordiamo ancora in modo netto. A noi pare che quella dissoluzione sia stata proprio la conseguenza inevitabile di quell’atteggiamento mentale. Quel comportamento psicologico, se considerato con attenzione, indica che conteneva già in sè l'inclinazione a morire di quella malattia. Il suo valore più alto: l'unicità del singolo, si astraeva da tutto ciò che anche al singolo dà senso e forza, e lo strappava dalla razza come sua radice fondamentale. Ma ciò che è stato sradicato può solo appassire.

 

Di tutto questo ci si era già resi conto, ma ci si appassionava al fatto di appassire; ci si compiaceva della propria condizione malata; si godeva della crescente unicità della vita decadente, e si curava solo la fantasmagoria cromatica della dissoluzione. Certo ci si concentrava sulla malattia, ma non con lo scopo di curarla, in quanto una cura avrebbe rovinato la preziosa unicità del male. Il valore dell'”unicità del singolo” era talmente indiscutible da non poter essere scosso ad alcun prezzo, neppure in quei campi nei quali, un tempo, spiriti ben più profondi avevano capito che proprio questa consapevolezza dell'”unicità del singolo”, vissuta all'estremo, porta sempre necessariamente a quel deserto interiore che inaridisce ogni forma di vita.

 

La conclusione non poteva essere che la disperazione. Ma dicendo questo non si è detto molto, perchè ci sono molti tipi di disperazione. Nei paesi occidentali questa disperazione intellettuale si è trasformata in un dolore cronico e sotterraneo. C'è in questo caso una disperazione che non finisce mai; non riesce mai a superare se stessa, ma nello stesso tempo non sa trasformarsi in un qualcosa di nuovo. Essa persevera come un qualcosa di "fin de siècle", che continua anche nel nuovo secolo.

 

Può darsi che per noi tedeschi sia motivo di un certo orgoglio il fatto che proprio qui la disperazione sia arrivata alle sue ultime conseguenze, preparando così la sua stessa fine. Sarebbe stata la fuga nell'idea, portata alle sue ultime conseguenze dal condizionamento cronologico di ogni vita storica. Non si vedeva più alcun popolo, alcun sangue, alcuna specie - si vedevano solo “culture”. Le si vedeva crescere allo stesso modo in cui crescono le piante. Si vedeva che esse "obbligatoriamente" dovevano attraversare certe forme, e come quelle finalmente appassissero, anche qui "obbligatoriamente", proprio come una pianta di un anno appassisce dopo che la sua vita annuale comincia a declinare.

 

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